Sei un fotografo, così ha scritto uno di loro, un grande appena scomparso, di nome Abbas, sei un fotografo quando quello che vedi ti sembra più importante di quello che pensi.
È questo naturale, spontaneo, quasi religioso rispetto per la realtà il vero comune denominatore degli uomini con l'obiettivo (che bella ambiguità, questa parola).
I generi, in fondo (il fotoreporter, l'artista, il fotografo di architettura o di paesaggi) contano meno di questo intricato, diabolico ed entusiasmante patto con il mondo che ci sta davanti agli occhi.
Perché poi nessun fotografo rinuncia davvero a pensare: nessun fotografo si riduce a una macchina automatica. Ma ogni fotografo sa che può pensare solo attraverso quello che ha visto.
Persino quando crea (a volte lo fa) la fotografia deve farlo usando pezzi di realtà. Puoi dipingere un angelo formandolo nella tua mente; ma puoi fotografare solo un essere umano reale, o un manichino, vestiti da angelo.
Il fascino della fotografia è la quantità di modi in cui quel patto difficile con la realtà può essere stipulato. Per questo ogni grande fotografo è unico, e tutti dialogano fra loro.
Dobbiamo qualcosa ai grandi fotografi. La riattivazione neurale di quella facoltà, la vista, che continuiamo a definire la regina dei sensi, ma che soffre facilmente di stress e di usura, che si logora, che va in overflow e allora stacca e si fa, appunto, pura percezione sensoriale, mentre è pensiero che pensa il mondo e lo interpreta ancora prima che intervenga la mente, ce lo ha spiegato così bene Rudolf Arnheim.
I grandi fotografi sono pesci nel mare. Nuotano in oceani colmi di potenziali immagini, ma quale sarà quella buona? Quella giusta? Come si riconoscono una fotografia buona, una fotografia giusta?
Come scegli, cosa scegli nel momento preciso in cui devi decidere di scattarla? Che sfida. I fotografi, scrisse George Bernard Shaw, sono come i merluzzi. Depongono milioni di uova, nella speranza che almeno una si schiuda. I principianti non si facciano illusioni: anche i grandi fotografi conoscono la frustrazione del fallimento, della fotografia che “non è come volevo”.
Sebastião Salgado, forse uno dei due o tre fotografi il cui nome sia noto anche all’uomo della strada, ha confessato la sua ansia, mai placata in decenni di successo, di tornare a casa col carniere vuoto.
E quel comandamento di Edward Weston sempre nel cuore: “Una fotografia abbastanza buona non è abbastanza”. L’opera di un grande fotografo richiede anni e anni di convivenza con quest’ansia. Del resto, sommando scatti da un centoventicinquesimo di secondo, le fotografie buone di un grande fotografo alla fine occuperanno forse uno, due minuti di una vita intera. Eppure, quando glielo chiedete, diranno tutti che ne valeva la pena.
Salgado è il primo dei sei Maestri di fotografia a cui Repubblica dedica altrettanti volumi monografici per raccontare la sfida, l’ansia, la ricerca dei cercatori di immagini buone e giuste. La formula non esiste. I manuali di composizione sono sempre un po’ patetici: per ogni regola d’oro ci sono dieci capolavori che la smentiscono.
La fotografia, del resto, non è un progetto, come il dipinto per il pittore. La fotografia è un’esperienza. È la traccia di un incontro fra un osservatore e il mondo. Mille variabili impediscono di fissare criteri sicuri per il buon esito di quell’incontro. Mille ingredienti entrano nel miracolo della riuscita.
Queste sei monografie, sei storie, sei esperienze, cercano di distinguere i sapori di sei cocktail. Per ciascuno, diversa è la proporzione di padronanza tecnica, gestione delle emozioni, cultura visuale, biografia, ideali, caso, volontà, inconscio. Il racconto è la chiave d’accesso.
Sei lunghe interviste-incontro, dunque: che Mario Calabresi, giornalista, direttore di Repubblica e già autore di un volume sui grandi fotografi, ha raccolto dalla viva voce di ciascuno dei sei fotografi scelti. Sei confessioni d’autore che si intrecciano con le immagini. Con la storia di ogni specifica grande immagine. Con l’analisi del linguaggio visuale (a cura di Alessia Tagliaventi) di ogni specifica grande immagine.
Prendiamo Sebastião Salgado, il primo dei sei. Lo conosciamo come il narratore epico, biblico, dell'avventura umana sulla Terra. Il suo viaggio a ritroso, dalla condanna al lavoro alla fuga dall'Eden al paradiso primordiale. Conosciamo meno il metodo, la fatica, il rigore e le esitazioni della costruzione di quel racconto. La fragilità, le crisi dell'uomo che lo ha pensato, in qualche caso soffrendone il peso, come per lui davanti alla fame sterminatrice del Sahel.
“Esiste anche il dovere di fare qualcosa di bello”, confessa Salgado a Calabresi. Per un fotografo è una sfida ardua. Il mondo non è sempre un bel posto, e molti fotografi hanno scelto di compiere un itinerario attraverso il dolore degli altri. Per Salgado questo ha comportato risalire la catena della creazione del mondo, dalla condanna al lavoro su su fino alla Genesi.
Per Paolo Pellegrin, taciturno fotografo italiano di Magnum, è stato un percorso fra la luce e l’ombra che circonda quasi sempre i suoi soggetti, una nebbia scura da cui cercano di emergere i volti, reclamando le loro storie che non conosciamo: come la donna palestinese di Jenin che sviene fra le braccia dei parenti al funerale del figlio. Pellegrin ha lavorato sui fronti caldi del pianeta, convincendosi che le fotografie “non cambiano la storia, ma le appartengono”, e quindi, come ogni gesto umano nella storia, devono assumersi una responsabilità. Possiamo sentirlo raccontare come è riuscito, in Cambogia o in Palestina o in Libano o nel Giappone dello Tsunami, a non farsi travolgere dal Dies Irae dell'umanità, a restituircene l'indicibile, lasciando le sue immagini non-finite, incomplete, compito nostro.
Etica, estetica? Il dilemma è mal posto, da sempre. Non esistono immagini senza estetica: il bello non è automaticamente nemico del giusto. A San Ysidro, California, Alex Webb incrocia un gruppo di migranti clandestini messicani fermati dalla polizia di frontiera in mezzo a un campo dove risplende un’orgia di fiori gialli. Il colore è una sirena per i fotografi, molti lo tengono fuori con blindati cancelli monocromatici, Webb invece si assume il rischio del contrasto feroce fra disperazione degli uomini e euforia del paesaggio. Il colore può essere un atto di coraggio civile.
Anche Paul Fusco fotografa a colori in un giorno in cui il lutto avrebbe imposto il cliché del bianco-e-nero: un sabato pomeriggio di giugno del 1968 il funeral train di Bob Kennedy porta il corpo senza vita di un possibile presidente degli Stati Uniti assassinato da New York a Washington.
Fusco sale su quel treno e un’America straziata gli sfila come in un film davanti al finestrino: persone di ogni ceto colore età con la mano sul cuore e le lacrime agli occhi, un popolo sull’attenti per dolore e rispetto. Quelle sue foto attesero trent’anni prima che qualcuno le pubblicasse. Il difficile equilibrio tra bello e giusto non sempre appare chiaro e accettabile a tutti, neppure agli editori.
Viceversa, col bianco e nero si può colorare il mondo. Elliott Erwitt ha versato nella fotografia l’ingrediente più difficile da dosare, ma il più poetico: l’ironia. Nei suoi scoop (il litigio fra Nixon e Kruscev), nei suoi reportage drammatici sul razzismo americano (i lavandini separati dell’apartheid) come nei suoi ritratti ai cani, specchi innocenti dei nostri difetti.
Oppure, si possono prendere le misure al mondo. Gabriele Basilico ha dedicato la sua vita al ritratto dei luoghi. Fabbriche, periferie, città, spazi perfettamente funzionanti come la Silicon Valley o devastati come Beirut. Togliendo l’uomo dal centro della scena, ne ha scovato le impronte, ancora calde. Questo del resto fa sempre la fotografia: raccoglie impronte, tracce visuali ancora sporche della polvere del reale.
Le fotografie non sono immagini, sono esperienze. Che una macchina miracolosa ci permette di condividere. Le immagini non si possono tradurre in parole. Ma le esperienze che le hanno generate sì, possono essere raccontate. Questa breve collana celebra l'incontro possibile, rispettoso, rivelatore, fra le parole e le immagini.
Ma solo alcuni vedenti sanno poi mettercele sotto agli occhi in un modo che ce le fa conoscere. Con discrezione, proviamo a chiedere loro come si fa.
[Versioni di questo articolo sono apparse su Il Venerdì di Repubblica il 28 settembre 2018 e su La Repubblica il 2 ottobre 2018]