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Foto belle e buone. Ovvero, cos'è un Maestro?

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MaestriFotografiaRepubblicaSei un fotografo, così ha scritto uno di loro, un grande appena scomparso, di nome Abbas, sei un fotografo quando quello che vedi ti sembra più importante di quello che pensi.

È questo naturale, spontaneo, quasi religioso rispetto per la realtà il vero comune denominatore degli uomini con l'obiettivo (che bella ambiguità, questa parola).

I generi, in fondo (il fotoreporter, l'artista, il fotografo di architettura o di paesaggi) contano meno di questo intricato, diabolico ed entusiasmante patto con il mondo che ci sta davanti agli occhi.

Perché poi nessun fotografo rinuncia davvero a pensare: nessun fotografo si riduce a una macchina automatica. Ma ogni fotografo sa che può pensare solo attraverso quello che ha visto.

Persino quando crea (a volte lo fa) la fotografia deve farlo usando pezzi di realtà. Puoi dipingere un angelo formandolo nella tua mente; ma puoi fotografare solo un essere umano reale, o un manichino, vestiti da angelo.

Il fascino della fotografia è la quantità di modi in cui quel patto difficile con la realtà può essere stipulato. Per questo ogni grande fotografo è unico, e tutti dialogano fra loro.

Dobbiamo qualcosa ai grandi fotografi. La riattivazione neurale di quella facoltà, la vista, che continuiamo a definire la regina dei sensi, ma che soffre facilmente di stress e di usura, che si logora, che va in overflow e allora stacca e si fa, appunto, pura percezione sensoriale, mentre è pensiero che pensa il mondo e lo interpreta ancora prima che intervenga la mente, ce lo ha spiegato così bene Rudolf Arnheim.

I grandi fotografi sono pesci nel mare. Nuotano in oceani colmi di potenziali immagini, ma quale sarà quella buona? Quella giusta? Come si riconoscono una fotografia buona, una fotografia giusta?

Come scegli, cosa scegli nel momento preciso in cui devi decidere di scattarla? Che sfida. I fotografi, scrisse George Bernard Shaw, sono come i merluzzi. Depongono milioni di uova, nella speranza che almeno una si schiuda. I principianti non si facciano illusioni: anche i grandi fotografi conoscono la frustrazione del fallimento, della fotografia che “non è come volevo”.

Sebastião Salgado, forse uno dei due o tre fotografi il cui nome sia noto anche all’uomo della strada, ha confessato la sua ansia, mai placata in decenni di successo, di tornare a casa col carniere vuoto.

E quel comandamento di Edward Weston sempre nel cuore: “Una fotografia abbastanza buona non è abbastanza”. L’opera di un grande fotografo richiede anni e anni di convivenza con quest’ansia. Del resto, sommando scatti da un centoventicinquesimo di secondo, le fotografie buone di un grande fotografo alla fine occuperanno forse uno, due minuti di una vita intera. Eppure, quando glielo chiedete, diranno tutti che ne valeva la pena.

Salgado è il primo dei sei Maestri di fotografia a cui Repubblica dedica altrettanti volumi monografici per raccontare la sfida, l’ansia, la ricerca dei cercatori di immagini buone e giuste. La formula non esiste. I manuali di composizione sono sempre un po’ patetici: per ogni regola d’oro ci sono dieci capolavori che la smentiscono.

La fotografia, del resto, non è un progetto, come il dipinto per il pittore. La fotografia è un’esperienza. È la traccia di un incontro fra un osservatore e il mondo. Mille variabili impediscono di fissare criteri sicuri per il buon esito di quell’incontro. Mille ingredienti entrano nel miracolo della riuscita.

Queste sei monografie, sei storie, sei esperienze, cercano di distinguere i sapori di sei cocktail. Per ciascuno, diversa è la proporzione di padronanza tecnica, gestione delle emozioni, cultura visuale, biografia, ideali, caso, volontà, inconscio. Il racconto è la chiave d’accesso.

Sei lunghe interviste-incontro, dunque: che Mario Calabresi, giornalista, direttore di Repubblica e già autore di un volume sui grandi fotografi, ha raccolto dalla viva voce di ciascuno dei sei fotografi scelti. Sei confessioni d’autore che si intrecciano con le immagini. Con la storia di ogni specifica grande immagine. Con l’analisi del linguaggio visuale (a cura di Alessia Tagliaventi) di ogni specifica grande immagine.

Prendiamo Sebastião Salgado, il primo dei sei. Lo conosciamo come il narratore epico, biblico, dell'avventura umana sulla Terra. Il suo viaggio a ritroso, dalla condanna al lavoro alla fuga dall'Eden al paradiso primordiale. Conosciamo meno il metodo, la fatica, il rigore e le esitazioni della costruzione di quel racconto. La fragilità, le crisi dell'uomo che lo ha pensato, in qualche caso soffrendone il peso, come per lui davanti alla fame sterminatrice del Sahel.

“Esiste anche il dovere di fare qualcosa di bello”, confessa Salgado a Calabresi. Per un fotografo è una sfida ardua. Il mondo non è sempre un bel posto, e molti fotografi hanno scelto di compiere un itinerario attraverso il dolore degli altri. Per Salgado questo ha comportato risalire la catena della creazione del mondo, dalla condanna al lavoro su su fino alla Genesi.

Per Paolo Pellegrin, taciturno fotografo italiano di Magnum, è stato un percorso fra la luce e l’ombra che circonda quasi sempre i suoi soggetti, una nebbia scura da cui cercano di emergere i volti, reclamando le loro storie che non conosciamo: come la donna palestinese di Jenin che sviene fra le braccia dei parenti al funerale del figlio. Pellegrin ha lavorato sui fronti caldi del pianeta, convincendosi che le fotografie “non cambiano la storia, ma le appartengono”, e quindi, come ogni gesto umano nella storia, devono assumersi una responsabilità. Possiamo sentirlo raccontare come è riuscito, in Cambogia o in Palestina o in Libano o nel Giappone dello Tsunami, a non farsi travolgere dal Dies Irae dell'umanità, a restituircene l'indicibile, lasciando le sue immagini non-finite, incomplete, compito nostro.

Etica, estetica? Il dilemma è mal posto, da sempre. Non esistono immagini senza estetica: il bello non è automaticamente nemico del giusto. A San Ysidro, California, Alex Webb incrocia un gruppo di migranti clandestini messicani fermati dalla polizia di frontiera in mezzo a un campo dove risplende un’orgia di fiori gialli. Il colore è una sirena per i fotografi, molti lo tengono fuori con blindati cancelli monocromatici, Webb invece si assume il rischio del contrasto feroce fra disperazione degli uomini e euforia del paesaggio. Il colore può essere un atto di coraggio civile.

Anche Paul Fusco fotografa a colori in un giorno in cui il lutto avrebbe imposto il cliché del bianco-e-nero: un sabato pomeriggio di giugno del 1968 il funeral train di Bob Kennedy porta il corpo senza vita di un possibile presidente degli Stati Uniti assassinato da New York a Washington.

Fusco sale su quel treno e un’America straziata gli sfila come in un film davanti al finestrino: persone di ogni ceto colore età con la mano sul cuore e le lacrime agli occhi, un popolo sull’attenti per dolore e rispetto. Quelle sue foto attesero trent’anni prima che qualcuno le pubblicasse. Il difficile equilibrio tra bello e giusto non sempre appare chiaro e accettabile a tutti, neppure agli editori.

Viceversa, col bianco e nero si può colorare il mondo. Elliott Erwitt ha versato nella fotografia l’ingrediente più difficile da dosare, ma il più poetico: l’ironia. Nei suoi scoop (il litigio fra Nixon e Kruscev), nei suoi reportage drammatici sul razzismo americano (i lavandini separati dell’apartheid) come nei suoi ritratti ai cani, specchi innocenti dei nostri  difetti.

Oppure, si possono prendere le misure al mondo. Gabriele Basilico ha dedicato la sua vita al ritratto dei luoghi. Fabbriche, periferie, città, spazi perfettamente funzionanti come la Silicon Valley o devastati come Beirut. Togliendo l’uomo dal centro della scena, ne ha scovato le impronte, ancora calde. Questo del resto fa sempre la fotografia: raccoglie impronte, tracce visuali ancora sporche della polvere del reale.

Le fotografie non sono immagini, sono esperienze. Che una macchina miracolosa ci permette di condividere. Le immagini non si possono tradurre in parole. Ma le esperienze che le hanno generate sì, possono essere raccontate. Questa breve collana celebra l'incontro possibile, rispettoso, rivelatore, fra le parole e le immagini.

Ma solo alcuni vedenti sanno poi mettercele sotto agli occhi in un modo che ce le fa conoscere. Con discrezione, proviamo a chiedere loro come si fa.

[Versioni di questo articolo sono apparse su Il Venerdì di Repubblica il 28 settembre 2018 e su La Repubblica il 2 ottobre 2018]


Quando l'America scoprì Martino

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Nessuno ha scoperto l'America. Neanche Cristoforo Colombo, che notoriamente pensò di avere trovato le Indie Orientali.

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© Martino Marangoni

Nessuno di noi scopre mai l'America. È sempre l'America a scoprire noi. Nel senso proprio: a lasciarci scoperti, nudi, disarmati di fronte a lei.

Come scrive scrive W.M. Hunt nella postfazione al libro di Martino Marangoni di cui vi parlerò, non appena attraversi in taxi uno dei ponti sull'East River, venendo dal JFK, cominciano a fischiarti nelle orecchie le prime battute di Rapsodia in blu di Gershwin.

Quel clarinetto ubriaco è il verso della nostra sorpresa, il nostro wow di europei che sobbalzano di fronte a quel sentimento speciale che si prova solo in America: la meraviglia del già noto.

Perché l'America la conosciamo tutti, l'abbiamo sempre conosciuta molto prima di andarci e la conosciamo anche senza il bisogno di andarci mai.

Siamo pieni di America, stracolmi di immagini dell'America, per questo non ci resta nulla da scoprire, la meraviglia viene però lo stesso, dalla sorpresa di trovare veramente le cose del nostro immaginario americano, di vederle lì, reali, esistenti, noi che pensavamo fossero solo disegni dei fumetti di Topolino o scenografie dei telefilm.

Per questo motivo credo non si possa tracciare una linea netta fra i fotografi che hanno raccontato l'America standoci dentro, e quelli che l'hanno fatto venendo da fuori; e se anche esiste, quella linea non divide il noto dall'ignoto, la conoscenza dalla scoperta.

Tra William Klein e Robert Frank, ad esempio, questi due dinamitardi che fecero esplodere la fotografia umanistica (che non si riebbe più), le differenze sono molte, ma non dipendono dal fatto che il primo fosse americano e il secondo svizzero (del resto, Klein è stato magnetizzato dall'Europa almeno quanto Frank dall'America).

Per entrambi, l'America fu il proscenio della crisi della modernità, il lunapark dove il sogno del secolo del benessere saliva sulla giostra e si faceva venire il capogiro.

Ora, proprio negli anni in cui l'America scopriva Klein e poi Frank, ebbe il tempo di scoprire anche un ragazzino italiano. Era il 1959 quando Martino scese da un bastimento e sentì nelle orecchie il clarinetto di Gershwin.

La cosa singolare, è che quel bambino non era veramente tutto italiano. Per la legge anzi non lo era affatto. Figlio di padre italiano e di madre americana, per decisione del padre aveva in tasca solo il passaporto statunitense, anche se era nato e cresciuto a Firenze.

Pensate che cortocircuito quando un ragazzino di nove anni, americano ma senza America, si trova di fronte quella che Louis-Ferdinand Céline (o forse era Le Corbusier...) chiamò "la città che sta in piedi".

Per fortuna, il piccolo Martino era accessoriato. Possedeva una Kodak Brownie. La usò subito: a dimostrazione che, quando l'America ti scopre, l'unica difesa è l'attacco. In piedi di fronte alla città in piedi, eccole, le sue foto emozionate ma senza soggezione.

Furono le prime di ben sessant'anni di fotografie a cavallo dell'Oceano. Con ritmi diversi, per tutti questi decenni Martino è andato e venuto fra le sue due patrie. Ha cambiato sguardo, ha cambiato fotocamere (con una frequenza altissima).

L'America pure gli è cambiata davanti agli occhi, non sempre gli è piaciuta. A volte lo ha contrariato, come negli anni di Reagan, quando ha rallentato le visite. A volte lo ha addolorato, come l'11 settembre 2001 (lui era lì, vide e fotografò).

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© Martino Marangoni

Del  resto Martino stesso è cambiato. Di che cosa è dunque il diario questo libro, Rebuilding (che allude alle incessanti ricostruzioni urbanistiche di Manhattan, ma forse anche alla ricostruzione di un percorso esistenziale di fotografo)  costruito ripescando dall'archivio le buste di tutti i quei viaggi? Vorrei dirlo con un gioco di parole: dello sguardo su uno sguardo che ci guarda e che ci riguarda.

È la storia dello sguardo dell'America, e non solo sull'America. Dell'America che ci guarda mentre si fa guardare. Quell'America ci ri-guarda, insomma, perché restituisce lo sguardo, e ci riguarda perché quello sguardo di ci coinvolge, in modo perfino prepotente.

E questo, badate, può essere affascinante. Di sicuro, è seducente. Ho visto da poco un altro diario di viaggi americani, di un altro fotografo italiano, curiosamente, un altro fiorentino (qui ci vorrebbe come colonna sonora La porti un bacione a Firenze). Mario Carnicelli, che ho presentato ai lettori di Fotocrazia come lo straordinario narratore dei funerali di Togliatti.

Bene, Carnicelli vinse nel 1966 una borsa di studio della 3M, per andare a fotografare l'America a suo piacimento, per sei mesi. Aveva 29anni. Le sue fotografie di allora sono state pubblicate solo oggi. Ora, l'America trabocca anche da quelle immagini: nel cosa ci fanno vedere e nel come ce lo fanno vedere. Ed è la stessa America che vediamo nelle fotografie di Frank, Klein, Levitt, Erwitt, l'America dei pionieri della fotografia di strada.

Badate, non voglio sminuire l'originalità dello sguardo di nessuno. Potremmo passare ore ad analizzare lo stile, le scelte, il messaggio di ciascuno dei fotografi che ho citato.

Martino, ad esempio: la sua è una curiosità costante per la relazione fra i corpi e la città, per i comportamenti delle persone negli spazi pubblici. I fumatori che sorprende fuori dagli uffici, lo sguardo perso nel tempo inutilizzabile a cui li costringe il divieto di fumo nei luoghi pubblici, un'antropologia che abbiamo imparato a conoscere anche qui da noi.

Più in generale incroci di solitudini nei tempi morti, l'attesa di qualcuno di di qualcosa, la telefonata, in quegli spazi connettivi senza identità, né esterni né interni, gli androni, le hall, i mall...

Ma sarebbe semplicemente da ciechi non vedere con quale potenza quel soggetto formidabile che è l'America, paziente sullo sfondo si impone comunque, in vario modo, a tutti quanti si presentano al suo cospetto.

Insomma, noi guardiamo americano. Noi europei, noi italiani, intendo. L'immaginario d'America ha costruito il nostro sguardo. Ogni viaggio americano di un europeo cattura e conferma quello sguardo. Non accade così in nessun altro paese del mondo.

Ovunque andiamo, in Africa o in Asia, è il nostro sguardo che si posa su pezzi di mondo che, in fondo, hanno considerato loro proprietà nel corso degli ultimi secoli. Vediamo eurocentricamente l'Asia e l'Africa.

Ma vediamo americanamente l'America. Quando viaggiamo in America, lei non ci offre solo scenari da vedere, ma anche schemi mentali per vederli. Sta al fotografo decidere quanto accettare il doppio dono. Quanto accettare, rifiutare, contrattare, mediare. Quanto lasciarsi scoprire, quanto ricoprirsi, schermirsi, ripararsi.

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© Martino Marangoni

Martino, l'italoamericano anomalo, ha scelto. La sua difesa dallo sguardo medusante dell'America è stato il pendolo dei suoi andirivieni fra le sue due patrie. In Italia, Martino recuperava la sua indipendenza e freschezza di sguardo.

Vogliamo dirla come il Manzoni: per riuscire a vedere l'America deve ogni volta risciacquare i suoi occhi in Arno... Come dire, solo se ti senti un po' straniero puoi scoprire l'America.

Viceversa, puoi farti scoprire dall'America solo se te la porti a casa, e se ti porti la casa in America. Martino ha vissuto nel cortocircuito dei dispatri, delle patrie incrociate, nell'incrocio dei due mondi di cui è l'eroe.

Un bellissimo suo libro pubblicato da Martino prima di questo ci racconta un uliveto toscano visto con gli occhi di Nonni, la mamma americana che scelse la Toscana come sua nuova patria. Viceversa, quando fotografa Central Park, lo fa somigliare a un uliveto.

Lo riconosce lui stesso, in un brano del testo di questo libro: "Ogni anno non vedo l'ora che arrivi il mio prossimo viaggio, ansioso di scoprire cosa è cambiato. Forse mi aspetto di rinnovare le forti sensazioni di stupore del mio primo viaggio. Mi chiedo se proverei le stesse sensazioni se avessi sempre vissuto lì".

Non ho mai trovato un fotografo di viaggio a cui calzi meglio quella meravigliosa poesia di Giorgio Caproni, il Biglietto lasciato prima di non andar via, con cui vorrei concludere questo mio discorsetto:

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

[Appunti per la presentazione del libro al festival Photolux di Lucca, 24 novembre 2018]

Una donna senza ritocco. Eve e le altre

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Da un comizio di Malcom X tornò “con un vestito a pois”. Erano bruciature di sigarette. Figuratevi: una donna ebrea bianca in mezzo ai Black Muslim arrabbiati.

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Eve Arnold: Joan Crawford, Los Angeles, Usa, 1959. © Eve Arnold / Magnum Photos, g.c.

A un raduno del KKK, invece, un nazista dell’Illinois le latrò in faccia: “con te, ci farei una bella saponetta”. Lei rispondeva con un clic.

E adesso guardate pure un ritratto di quella dolce fragile sorridente timida vecchietta di nome Eve Arnold, magari uno di quelli che si lasciò fare poco prima di morire, nel 2012, tre mesi prima di compiere cent’anni: ma non venitemi a parlare di sesso debole.

Mezzo secolo dietro una macchina fotografica, senza mai pentirsi, mezzo secolo passato a fotografare “la povertà perché sono nata povera, le donne perché sono una donna, la politica perché vivo nel mondo”.

Di quelle tre vocazioni, ad Abano Terme vi propone la seconda. Donne. Decine di donne, famose e sconosciute. Ma ci troverete inevitabilmente anche le altre due. Se dici All about Women, è come dire che parli di metà del mondo.

Nella mostra curata da Marco Minuz le donne-mondo di Arnold galleggiano fra le pareti affrescate di Villa Bassi, un gioiello aristocratico cinquecentesco, ora museo comunale, in curioso contrasto con gli affreschi pedagogici sulle virtù coniugali. Eve fu sposata, anche nonna di numerosi nipoti. Di sé però parlava poco, nelle interviste.

Raccontava molto, moltissimo, di loro, le altre, incontrate, frequentate, conosciute. Rispettate. Non mostrò a nessuno, mai, le foto nude di Joan Crawford, perché lei, che quando era tornata sobria se ne era pentita, la implorò di non farlo. Le giurò per questo “eterno amore e gratitudine”.

Ma quei primissimi piani dell’attrice ormai sul viale del tramonto mentre lotta ostinatamente con il makeup per potersi mostrare sul set del suo ultimo film da protagonista sono già abbastanza eloquenti.

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Eve Arnold: Marilyn Monroe, Hollywood, Usa, 1960. © Eve Arnold / Magnum Photos, g.c.

E Marilyn? Erano diventate grandi amiche. Si erano conosciute nel 1950, entrambe all’inizio delle rispettive carriere. Eve la riconobbe subito come “una grande manipolatrice”, non ingenua, ma fragile. Corse al suo capezzale quando la salvarono da uno dei suoi, diciamo, eccessi di medicinali. La fotografò sensuale, fra lenzuola bianche, ma anche sul set di The Misfits, ultimo travagliato film, girato in Nevada: deliziosa, ridente, in jeans, quasi una bambina.

Non potevano essere più differenti. Eve, nata Cohen, figlia di un rabbi immigrato ucraino nella provincia americana, era minuta, più dolce che graziosa, precocemente canuta: Marlene Dietrich la chiamava “la ragazza coi capelli bianchi”.

Fu la fotografia a corteggiare lei. Trovò lavoro come operaia in un laboratorio Kodak di sviluppo e stampa, ma a scattare non ci pensò mai fino a quando, sbarcata a New York dalla Pennsylvania come tante cowgirl, un fidanzato le regalò una Rolleicord da 40 dollari, la parente povera della Rolleiflex.

Per non sprecarla (era una ragazza metodica e parsimoniosa) si iscrisse a un corso di sei settimane tenuto da un guru dell’immagine: Alexey Brodovitch, il direttore di Harper’s Bazaar. Genere fashion-glamour, insomma.

Quando gli portò il suo primo saggio, lui rimase di stucco: un reportage nei peggiori bar di Harlem, ma anche qualche chiesa, che organizzavano sfilate di vestiti fatti in casa, che adesso diremmo ethno, tra modelle esuberanti, camerini squallidi e pubblico rumoroso.

Nessun magazine americano volle pubblicare quella “moda da negri” (anche il servizio su Malcom X, troppo “partecipante”, fu rifiutato da Life). Lo fece, con entusiasmo, il britannico Picture Post, e le diede la copertina.

Dunque, cominciò così. Poi continuò per 750 mila scatti, infaticabile, un servizio dopo l’altro, un libro dopo l’altro. Era l’età d’oro del rotocalco. Arnold ne fu una regina. Già nel 1951 fu ammessa nell’olimpo di Magnum, prima donna di quella misogina tavola rotonda del fotogiornalismo.

AbanoArnold1Ne diventò un nume tutelare, adorata e riverita dai maschietti, nelle assemblee annuali, “come una nonna ebrea quando fa in suo ingresso in una riunione di famiglia”. Elliott Erwitt le riconosceva “il massimo della grazia”. Robert Capa era ammirato di come sapesse “fotografare sia le gambe della Dietrich che quelle dei raccoglitori di patate”. “Se offri qualcosa di te, la gente ricambia”, rispondeva tranquilla lei.

Le donne, allora. Niente ideologismi. Anzi. Quella serie, Frantic Housewife, sulle casalinghe disperate inglesi (dal ’61 in poi visse a Londra), è un capolavoro di ironia autocritica sulla condizione della donna.

Donne famose: non tutte le piacciono. Con Bruce Chatwin incontra Indira Gandhi per il Sunday Times: non ne torna entusiasta. Donne sconosciute, anzi nascoste: quel suo viaggio pieno di contrasti, dubbi e affetto, Oltre il velo, negli harem dell’Afghanistan e dell’Egitto, è del 1969.

Donne lontane dalla storia, nella Cina dove avrebbe voluto vivere; donne in difficoltà, negli slum sudafricani o negli ospedali psichiatrici di Haiti dove le case farmaceutiche sperimentavano disinvoltamente i loro ansiolitici.

Non cercate figurine consolatorie, nell’album di Eve. Cercate lei. La troverete ovunque. Anche in quel servizio struggente, realizzato in un ospedale di Long Island, I primi cinque minuti, quelli del neonato subito dopo il parto, i primi lunghissimi cinque minuti della nostra vita. Eve aveva appena abortito.

Professionale nel lavoro, “dilettante nel cuore”. Fotografa donna e non donna fotografa. Nel 1976 Eve Arnold fece un libro retrospettivo, The Unretouched Woman. Era esattamente questo, una donna senza ritocco.

[Una versione di questo articolo è apparsa su Robinson di Repubblica il 29 giugno 2019]

Il giocatore delle perle di vetro

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Con il fascicolo in edicola ora, dedicato a Gianni Berengo Gardin, ho assunto l'incarico di proseguire la serie Maestri di fotografia di Repubblica - National Geographic. Mi tocca la responsabilità non piccola di succedere a Mario Calabresi, autore dei testi dei prededenti dieci fascicoli: non sarà facile, ci proverò. Come sempre, il fascicolo contiene anche le preziose letture di fotografie a cura di Alessia Tagliaventi. La serie proseguirà nei prossimi mesi con altri grandi autori (vi anticipo i prossimi due: Letizia Battaglia e Lynsey Addario). Sono in grado di offrirvi come assaggio alcuni estratti dal mio testo su Berengo Gardin.

IMG_2097[...]

Non che sia stato un amore a prima vista. Ci volle un altro motivo. Un dispetto. Finito a Roma per un paio d’anni con la famiglia, era il 1944, i tedeschi ordinarono la requisizione delle armi, ma anche delle macchine fotografiche. Gianni quattordicenne era già quel bastian contrario che sarebbe rimasto tutta la vita.

“Mi dissi: se proibiscono le fotografie vuol dire che sono importanti. E allora, prima di consegnare la macchina, comprai un po’ di pellicola e scattai come un matto”.

Eccola lì, la Ico della vocazione, in una vetrinetta: incredibilmente, la recuperò dopo la guerra. Sta in buona compagnia. Plaubel, Rolleiflex, Hasselblad, perfino una Speed Graphic da paparazzo. Ovviamente, le sue Leica. Le piccole macchine dei grandi, le docili invisibili velocissime protesi dell’occhio.

Un amore appassionato, con qualche scappatella: “Più che infedele, sono poligamo”. Al suo harem ha dedicato uno dei suoi libri: Leica e le altre. A Roma, una sera, tentarono di scippargliene due dal collo, “lottai per trattenerle, presi anche un po’ di botte, ma dovevo farlo. Un vero uomo difende l’onore della sua compagna”.

In una scatolina ci sono delle perline di Murano. Un ricordo. Il negozio dei Berengo Gardin è citato in un romanzo di Baron Corvo, alias Frederick Rolfe, un originale scrittore inglese di inizi Novecento, molto eclettico, innamorato di Venezia, l’ispiratore di Corto Maltese.

Ecco: Berengo Maltese, il navigatore di terre. In un libro recente si è divertito a travestirsi come quel suo concittadino da fumetto. Entrambi esploratori affamati di mondo visibile. Ma vendere ninnoli di vetro ai turisti non è che entusiasmasse poi tanto il giovane Gianni.

A un altro vetro, quello levigato delle lenti, aveva ormai consacrato la sua passione. Un maestro, Paolo Monti, e un gruppo di aristocratici fotoamatori, la Gondola, lo avevano accolto tra loro.

Severamente. Toni Del Tin, il presidente del circolo, esaminò a lungo le prime stampe del giovane aspirante socio, e alla fine, solennemente, gliele stracciò in faccia: “puoi fare di meglio”. Berengo gli è ancora grato. Perché in effetti sapeva fare di meglio. E tuttavia esitò a lungo prima di passare al professionismo, dopo tutto aveva moglie, figli.

Uno zio d’America, Fritz Reder, informato della sua passione, gli fece il regalo della vita: amico di Cornell Capa, il fratello del mito Robert, si fece consigliare da lui un po’ di libri e glieli spedì. Berengo fu tra i primi, in Italia, a conoscere Dorothea Lange, Walker Evans, i fotografi rooseveltiani della Farm Security Administration. “Ma quelle fotografie io le avevo già ‘viste’ nei romanzi di Steinbeck, Faulkner, Dos Passos...”. Grande lettore. “La fotocamera è come la penna per lo scrittore”. Decise che avrebbe saltato il fosso. O il canale.

Come una penna ha usato la sua fotocamera, gibigì, per oltre sessant’anni. E allora: Berengo Balzac, regista della commedia umana. “La quintessenza del fotografo narratore” ha detto di lui un vecchio amico e collega, Elliott Erwitt.

“Quello che faccio somiglia molto di più alla scrittura che alla pittura.Quindi fotogiornalista mi sta bene, a metà fra giornalista e fotografo”.

Di sicuro non è un fotografo di haiku, di poesie brevi, di istanti decisivi come tanti credono, è un narratore che ama i romanzi a capitoli, che gioisce quando può disporre “di sessanta buone foto e pensare un libro”.

[...]

Un'abbaiante bellezza. Fotografare gli animali

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Allora, siete volpe o marmotta? Dai su, l'avete vista tutti la foto di Bao Yongqing che ha vinto quest'anno il premio World Wildlife Photographer of the Year. Chi non l'ha vista può farlo ora: non me la fate raccontare, perde tutto. Be', sicuramente è Il momento, come dice il suo titolo.

10. W. Wegman_Qey, 2017

William Wegman: Qey 2017. Stampa ai pigmenti. Courtesy l’artista. © William Wegman

Oh, ve lo dico: se fossi stato in giuria, l'avrei votata anch'io. Ma con la consapevolezza di tradire la mia missione di giurato fotonaturalista.

Perché è chiaro che, se questa foto ci dice qualcosa sulla vita degli animali selvatici (wildlife vuol dire questo), è del tutto evidente che non è per questo che ha vinto.

Non ci vuole molto a capire quanto l'impatto di questa fotografia dipenda dalle emozioni antropomorfiche che non possiamo fare a meno di proiettare su questi due esseri viventi in lotta per la vita.

Le loro espressioni di tensione e di terrore sono quelle che prestiamo noi a quell'attimo probabilmente casuale, ma felicemente scelto fra tanti altri momenti in cui quei due animali hanno semplicemente un aspetto da animali. Perché gli animali non hanno espressioni umane.

Oppure le hanno?

Caso sapiente vuole che lo stesso giorno in cui questa foto esce su tutti i siti dei media, mi arrivi sul tavolo il volume che accompagna una mostra di William Wegman al Masi di Lugano.

Being Human. Essere umani. Sulla copertina, una cane in pelliccia elegante tiene al guinzaglio un cane-cane.

Wegman, lo conoscono in tanti. Ma sarebbe meglio dire che tanti conoscono i suoi cani. I weimaraner che per quasi cinquant’anni sono stati il cast di una interminabile serie di ritratti.

07. W. Wegman_Casual, 2002

William Wegman: Casual 2002. Polaroid a colori. Proprietà dell’artista. © William Wegman

Sì, ritratti, e quando li avrete visti non vi rimarrà dubbio sull’uso di questo termine che diremmo riservato alla nobiltà del volto umano specchio dell’anima.

Wegman comprò per 35 dollari il suo primo cane nel 1970 a Long Beach, in California (ora vive a New York ma allora insegnava là). Amando l’arte, lo chiamò Man Ray.

Era un diavolo d’un cucciolo: irrequieto, rumoroso, non sopportava di non essere coccolato. Solo davanti alla fotocamera, Wegman notò subito, Man Ray diventava tranquillo, docile, collaborativo. Forse perché si sentiva al centro della sua attenzione.

Per dodici anni Man Ray fu il suo attore. Un fantastico attore. Versatile, paziente, professionale, ironico. Impersonò qualsiasi carattere, di qualsiasi epoca, di qualsiasi luogo, in qualsiasi stile.

Wegman era un artista, disegnava, dipingeva, produceva stampe. Diventò celebre per la sua Dog Art. Lo ha sempre saputo e gliene è grato. Quando morì, nel 1982, gli succedettero gli eredi: l’altrettanto divina Fay Ray, e tutta la prole di più generazioni: Chundo, Battina, Crooky, Chip, Bobbin, Candy, Penny, fino a Topper, ancora in servizio (oggi Wegman ha 77 anni).

Fantastici cani da set. Veri animali da palcoscenico. Wegman non usa Photoshop (sono quasi tutte Polaroid di medio formato). La collaborazione dei suoi modelli deve essere vera, e paziente. Can che abbaia non posa.

Provocatore grottesco e raffinato, Wegman ha chiesto la complicità dei cani per prendere sottilmente e ferocemente in giro la storia della fotografia, i suoi stili m i suoi cliché, i suoi generi. Guardate le fotografie di nudo: sì, i suoi cani sembrano davvero nudi in quelle foto.

Insomma, a dirla tutta, Man Ray diventò più celebre di lui. Finì sulle copertine di grandi riviste d’arte, ArtForum, Camera Arts, Avalanche. Fu invitato ai talk show di prima serata, perfino a quello di David Letterman. La gente lo riconosceva per strada. A differenza del padrone.

Dell’autore, si dovrebbe dire. Meglio dire il regista. Uno di quelli che lavorano con attori più famosi di loro.

05. W. Wegmana_On Base, 2007

William Wegman: On Base 2007. Polaroid a colori. Proprietà dell’artista. © William Wegman

Come saprete benissimo, ci sono altri celebri fotografi di cani. Uno è Elliott Erwitt, a cui però la definizione va assai stretta. Erwitt è un grande reporter dell’umano, oltre che un grande fotogiornalista; i cani sono stati per lui i rivelatori del suo umanesimo ironico.

Di sicuro, i cani di Wegman non sono davvero cani. Non solo perché li camuffa da umani. Lo sono perché tutti gli animali domestici, e molti di quelli “utili”, addomesticati e allevati, sono ormai dei centauri, delle arpie, delle sirene: metà uomini e metà bestie.

John Berger ha scritto pagine straordinarie sul modo in cui lo sguardo umano ha reso mutanti gli animali. “soggiogati e venerati, nutriti e sacrificati”, dimostrazione vivente dell’antropocentrismo imperialista della nostra razza.

Ci hanno dato tutto: compagnia, lavoro, perfino la loro carne. Hanno consolato la nostra solitudine, arricchito la nostra borsa, nutrito il nostro corpo. Li abbiamo ripagati sottraendoli alla Natura e trasferendoli nella Cultura. La nostra.

Tornate a guardare quella volpe e quella marmotta: non sono natura più di quanto non lo siano gli animali delle favole di Fedro e di Esopo, o nelle incisioni moraleggianti di Grandville, o quelli nei cartoni di Walt Dismey.

Forse ha ragione Wegman quando dice a William E. Ewing, curatore della mostra: “Un cane non ha bisogno di essere travestito per mostrare di avere qualità umane. Non ho fatto letteralmente alcuno sforzo per antropomorfizzarlo”.

Non c’era bisogno. Ha trovato il lavoro già fatto da secoli di convivenza tra l’uomo e il cane che, con tutto il rispetto per la commovente narrazione che fa Konrad Lorenz della nostra ancestrale amicizia, è sempre stata squilibrata, asimmetrica, vogliamo dirlo? Un po’ parassita.

04. W. Wegman_Newsworthy, 2004

William Wegman: Newsworthy 2004. Polaroid a colori. Proprietà dell’artista. © William Wegman

A questo punto la mia amica Silvia Amodio mi sgriderebbe. Grande fotografa di cani e padroni. Ma soprattutto, e prima ancora, appassionata studiosa di semantica intraspecifica. Traduco: dei linguaggi che l’uomo ha inventato per parlare con gli animali.

Silvia si è laureata in questa scienza di frontiera, ha lavorato a lungo sulle relazioni fra addestratori e delfini, sulle abilità linguistiche dei primati che conoscono centinaia di parole.

La sua saga video di esperimenti con la faraona Nina vi farà dubitare che “la gallina non è un animale intelligente / lo si capisce da come guarda la gente”.

Silvia forse mi direbbe che è possibile costruire un luogo in cui incontrarci, con rispetto. Le darei ragione. Non credo cambi molto il discorso.

Man Ray, dopo tutto, non capiva il suo posto nell’arte (il cane, intendo). Non si riconosceva nelle fotografie che lo resero celebre. L’abbaiante bellezza di quelle fotografie, bisogna pur riconoscere, non esisterebbe senza l’occhio umano che le ha immaginate.

Penso a un’ultima immagine di cani che non mi andrà mai via dal cuore. Un filmato di Franco Vaccari, otto minuti in superotto, anno 1971, muto (ma lui vi sovrincise una musica), titolo Cani lenti, ed è precisamente questo: una ripresa al rallentatore di cani randagi, che si aggirano per strada “con aria di poesia”. Guardatelo, ne trovate estratti online: spero condividiate lo struggimento che ho provato io.

Quei cani lenti non hanno bisogno di noi. Sembrano averci abbandonato. Non sono felici, ma ci hanno detto addio. “Gli animali non ci guardano più”, era la conclusione di Berger.

Strappati a viva forza dalla Natura e ingabbiati nella Cultura, come tutti gli oppressi non hanno nulla che sia davvero loro, che non sia solo nostro. L’unica cosa che ancora possono negarci è lo sguardo.

Gliene abbiamo fatte tante, troppe: li abbiamo sfruttati, torturati, mangiati, modificati, trattati come giocattoli, lasciati estinguere.

Forse un giorno si ammutineranno, tutti, inspiegabilmente, implacabilmente, come gli uccelli di Hitchcock.

Non è vera ma è bella... Perché amiamo le finzioni

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IMG_2946Finì per chiamarla “image pute”, una fotografia pocodibuono, una fotografia ruffiana.

Glielo avessero detto in anticipo, a Robert Doisneau, che sarebbe diventato un bacio al veleno, forse quel giorno d’inverno di settant’anni fa avrebbe trattenuto il dito sul pulsante di scatto della sua Rollei.

Il bacio più bacio di tutti i baci, icona stessa di San Valentino, scambiata milioni di volte tra gli innamorati del pianeta, “ha rovinato gli ultimi anni della sua vita”, ammise qualche tempo fa Francine, figlia di quel grande poeta delle strade e dei bistrò parigini, gemello visuale di Jacques Prévert che era suo caro amico.

Due processi, lunghissime polemiche sulla sua autenticità, la fama ingombrante di un’immagine che rischiò di oscurare il suo stesso autore: e dire che a Doisneau quella foto neppure piaceva tanto, la trovava “superficiale, facile da vendere”.

Ma non c’è nulla da fare: il Baiser de l’Hotel de Ville resta scolpito nel marmo rosa dell’immaginario romantico del pianeta, a dispetto di tutto quello che sappiamo ormai sulla sua genesi e il suo destino molto prosaici.

Forse fu colpa degli americani. Della loro morbosetta curiosità da puritani; e della loro fretta da mercanti di figure. Fu Life, che nel 1950 era una potenza mondiale del giornalismo illustrato, a volere da Doisneau, il fotografo della vita minuta di Parigi, un reportage su quella curiosa e per loro un po’ pruriginosa abitudine dei francesi di baciarsi per strada.

Loro, gli americani, lo facevano solo nei film di Frank Capra, oppure nelle grandi occasioni: come il giorno della vittoria sui Giapponesi, il 14 agosto 1945, quando Alfred Eisenstaedt colse al volo l’abbraccio fra il marinaretto e la crocerossina festanti in Times Square, con rovesciata e caschè da tango, e fu un’icona istantanea.

Dicevo, i caporedattori di Life volevano foto rubate di baci rubati, e ne volevano tanti, non i ventiquattromila di Celentano, ma abbastanza per riempirci almeno due pagine del giornale. Doisneau glieli diede. Aveva 38 anni, era un professionista serio. Come si procurò la materia prima, be’, fu affar suo.

Ma una cosa va detta: quella foto che tutti ricordiamo, non fu la più importante del servizio. Comparve in piccolo, nella seconda pagina del servizio, sul numero del marzo 1950. Solo molti anni dopo divenne celebre: quando nel 1986 un editore la scelse per un poster e una cartolina. Ne vendette immediatamente 500 mila copie.

Oggi si calcola ne circolino tre milioni di versioni autorizzate, per non parlare di quelle abusive e di un’infinità di gadget amorosi, cuscini, tazze, magliette, puzzle, una proliferazione nucleare di merchandising che gli eredi hanno tentato inutilmente di arginare.

E con la fama, arrivarono i guai. Proprio come era successo per la foto di Eisenstaedt, cominciarono a farsi vive le coppiette certe di riconoscersi in quella che, senza neppure rallentare il passo, si scambiava un bacio su un marciapiede di rue de Rivoli.

Non tutte erano rivendicazioni disinteressate. Nel 1988 due ex ragazzi di Ivry, Jean-Louis e Denise Lavergne, chiesero un risarcimento di 18 mila dollari, qualcosa come centomila euro di oggi, gridando al furto di intimità.

Doisneau fu costretto a svelare la verità: i due baciatori peripatetici erano due giovani studenti-attori del Cours Simon, una scuola di teatro parigina, Jacques Curtaud e Françoise Bornet, amici del fotografo, appositamente ingaggiati. La scena era stata progettata, costruita, addirittura “girata” due volte sul posto e ripetuta in almeno altre due location.

LifeDoisneau(1)I Lavergne rimasero all’asciutto. Ma ci pensarono proprio i due attori, venuti allo scoperto, a far ripartire la giostra del tribunale: chiesero centomila franchi di compenso. Non li ebbero: Doisneau poté dimostrare di averli già pagati per la prestazione, e il tribunale stabilì che dopo tutto erano poco riconoscibili in quell’immagine, che ormai era diventata l’icona astratta dell’idea stessa di bacio.

A Françoise non restò che vendere all’asta la sua copia vintage della foto, autografata dall’autore, che nel 2005 le fruttò 185 mila dollari.

Per Doisneau fu una rovina economica scampata; ma diciamo che il fascino di quella fotografia avrebbe potuto uscirne un po’ malconcio. In fondo, era un inganno al lettore che durava da decenni: nel breve testo che accompagnava il servizio, uscito sul numero del 20 giugno del 1950, Life garantiva esplicitamente che quelli di Doisneau erano baci spontanei, raccolti in “unposed pictures”.

Bene, non è accaduto. Che fosse una recita, non ha danneggiato la reputazione del Baiser, che continua ad essere la bandiera dell’amore felice e impertinente. Del resto, i baci più emozionanti non sono forse quelli degli attori ben pagati di Hollywood?

La passione ha ragioni che la ragione non conosce: adora le storie belle, molto più che le storie vere. Il Baiser, scrisse Régis Debray, non aveva poi un compito molto diverso da quello di un bignè di alta pasticceria: procurare un dolce piacere.

E Doisneau, diciamolo, quel giorno fu un pasticciere sopraffino. La fotografia sembra davvero colta al volo: il soprabito e una sedia del bar, in basso a sinistra, che impallano un po’ la visuale; un passante mosso, l’orizzonte non proprio orizzontale: sembra davvero che il fotografo abbia afferrato al volo la fotocamera scattando un po’ alla cieca per cogliere al volo la scena.  E invece, guarda tu, le labbra degli amanti cadono esattamente sulla diagonale dell’inquadratura…

Ma suvvia, lo diceva un collega e contemporaneo di Doisneau, Edouard Boubat, fotografo voleur e galantuomo: in fotografia “qualsiasi bacio è un bacio rubato”. I fotografi sono i ricettatori di quelle dichiarazioni d’amore mute anche se a fior di labbra.

I loro clic sono dei kiss, il suono stesso dell’otturatore è quello di un bacetto dato al mondo lì davanti, ed è forse per questo che le fotocamere elettroniche e i cellulari, che potrebbero farne a meno, continuano a simularlo.

Anche recitato, un bacio in fotografia è la strizzatina d’occhio complice del voyeur. Le cartoline osé d'un secolo fa mostravano baci da boudoir alludendo a ciò che non si poteva mostrare.

Il bacio clandestino delle celebrità (che spesso sanno benissimo di essere fotografate) è la preda ghiotta dei paparazzi. Un bacio, in fotografia, è sempre candidato al successo: accadde al “bacio nel retrovisore” di Elliott Erwitt come ai fidanzati (o era una coppia clandestina?) sorpresi soli nella fuga ei portici di piazza San Marco da Gianni Berengo Gardin.

Guai a dire che in fotografia a kiss is just a kiss: quasi sempre sono messaggi, volontari o meno. Un bacio-protesta: i due noglobal di Vancouver sorpresi da Rich Lam allacciati sull'asfalto in mezzo agli scontri con la polizia. Un bacio-potere: quello quasi omoerotico fra Breznev e Honecker.

Un bacio-sollievo: i fidanzati praghesi in fuga dai carri armati sovietici, visti da Mario De Biasi due passi oltre il confine con l’Ungheria. Un bacio-provocazione: quello fra il pretino e la suorina di Oliviero Toscani. Un bacio-politica: Obama appena rieletto, allacciato alla sua Michelle.

Un bacio-disperazione: tra gli amici di Nan Goldin traditi dall'Aids e dalla droga. Un bacio-premonizione: John Lennon nudo come un morto abbarbicato alla sua Yoko Ono, fotografati da Annie Leibovitz poche ore prima dell'assassinio.

In fondo “una fotografia può essere un bacio o uno sparo”, pare abbia detto Henri Cartier-Bresson.

Tutto sommato, meglio un dolce abbandono, anche se un po’ costruito, di una guerra terribilmente vera.

In ogni caso, ora che la paura ce li ha ha rubati, ci accontentiamo volentieri anche di un bacio simulato.

[Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì di Repubblica il 14 febbraio 2020]

Con Sartre a vedere i cowboy. GBG fa 90

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Del suo buen ritiro di Camogli, una casona color rosa che sbircia uno dei due mari della sua vita (l’altro bagna Venezia), Gianni Berengo Gardin ha fotografato ormai ogni pianta del giardino, ogni modellino di barchetta della sua collezione, ogni piatto dipinto di quella della moglie Caterina, gran cuoca. “Potrei anche scattare senza pellicola”, si prende in giro.

2Il fatto è che, a novant’anni da compiere il 10 ottobre, questo patriarca del bianco-e-nero non ha nessuna intenzione di togliere il dito dal bottone della Leica. Nessuno è mai stato capace di imporglielo. Neanche i tedeschi.

“Bastian contrario tutta la vita”, dice, ma si contraddice con quel modo mite di parlare, arrotando le R come sa solo lui. Non ama le interviste, “sono il contrario di un chiacchierone, sono troppo orso”, si scusa, eppure alla figlia Susanna ha appena dettato un’autobiografia piena di rivelazioni e sorprese. Ma l’ha intitolata In parole povere perché lui ha sempre preferito la ricchezza delle immagini.

Insomma, dobbiamo ringraziare i nazisti se abbiamo un maestro italiano della fotografia?

“Nel 1944 vivevamo a Roma, i tedeschi avevano dato ordine di consegnare armi e macchine fotografiche e mamma mi diede la sua Ico a soffietto da portare al comando. Avevo quattordici anni, pensai: se una fotocamera è pericolosa come un fucile, deve avere qualcosa di speciale, allora prima di consegnarla comprai tre rullini e fotografai tutto quello che vedevo. Peccato, ho perso quei negativi in un trasloco. Ma non erano un granché”.

Si è rifatto abbondantemente.

“I miei volevano che studiassi ma studiare non mi piaceva, volevo fare cose con le mani, la macchina fotografica è anche una cosa manuale, non è solo intellettuale, è uno strumento da artigiano, da contadino, per questo non mi piace sentirmi dire artista”.

Come posso definirla allora?

4“Fotografo non basta? Dica narratore. Ho raccontato quel che ho visto. Non mi piaceva studiare ma leggere sì, ho amato i grandi americani, Faulkner, Steinbeck, Dos Passos, nel dopoguerra la mia generazione amava tutto quel che era americano, il cinema, i gesti, la gomma da masticare, e naturalmente la fotografia”.

Però poi fu in Francia che fiorì la sua vocazione.

“Scappai a Parigi nel 1953. E feci benissimo. Quando penso che avrei potuto fare l’albergatore o il venditore di perline di vetro nel negozio di famiglia a Venezia, o peggio ancora il piazzista della Olivetti dove avevo vinto un concorso, ho ancora un brivido di terrore. Parigi l’avevo immaginata nei romanzi di Simenon. Ed era piena di grandi fotografi”.

Con Robert Doisneau litigò.

“Non mi piaceva che mettesse in posa i suoi soggetti. Glielo dissi e mi tolse il saluto. Il mio vero grande amico fu Willy Ronis”.

Mentre con Jean-Paul Sartre scappava nei cinemini a vedere i western.

“Lo conobbi nel salotto di una signora, frequentato da scrittori, pittori, attori. Lui era già famoso ma non idolatrato come oggi. Io ero in gran soggezione ma ebbi il coraggio di dirgli che amavo il cinema, mi propose di andarci assieme. Chissà che noia di film d’essai mi costringerà a vedere, pensai. Mi portò a vedere un film di cowboy. Due mesi dopo ci rivedemmo, e di nuovo cowboy. Così per tre o quattro volte. Si vede che per lui erano rilassanti. Forse non aveva amici intellettuali a cui piacessero i film di cowboy”.

Nelle sue foto c’è una filosofia del mondo?

3“C’è il mondo. Io sono quello che lo guarda. Sono sempre stato di sinistra ma non ho ideologie, cos’era il comunismo me lo insegnarono gli operai dell’Alfa che fotografavo a Milano, cos’è la giustizia e la dignità lo vidi coi miei occhi là dove mancavano, nei manicomi in cui Franco Basaglia mandò Carla Cerati e me…”.

Per quel celebre libro, Morire di classe, che Einaudi regalò a tutti i parlamentari per sollecitare la legge Basaglia, appunto.

“Ne vado fiero, ma il lavoro a cui tengo di più è uno che ha avuto meno risonanza, quello sugli zingari. Gente meravigliosa, umanità profonda e perseguitata”.

Poi c’è Dentro le case: un monumento di antropologia visuale sul rapporto fra l’uomo e l’abitare.

“Con Luciano D’Alessandro stabilimmo di fotografare gli italiani negli interni delle loro case, scegliendole secondo l’esatta proporzione Istat, tante di poveri, tante di ceti medi e di ricchi. Volevamo che fosse un documento”.

Perché ha preferito i libri ai giornali?

“Ma è il viceversa! Sono un fotografo da libri perché i giornali non mi hanno fatto lavorare! Anche se risulto fra i primi tre fornitori di immagini del Mondo di Pannunzio… Io nasco nel mondo dei fotoamatori, dove la fotografia singola, iconica, alla Cartier-Bresson, era il miraggio di tutti”.

7Anche il suo… L’automobile sul lago… Il bacio sotto il portico… Il vaporetto…

“Sì, ne ho fatte anche io. Ma quando comincio a scattare in una situazione, penso sempre: chissà se me ne vengono una quarantina di buone per farci un libro…”.

Buone o belle?

“Buone! Quando Ugo Mulas mi mostrò le sue foto io ebbi la cattiva idea di commentare: come sono belle! Lui mi trattò malissimo: se dici ancora bello, ti caccio a pedate”.

Come si riconosce una fotografia buona?

“Quando racconta bene, ma senza inventare. Io cerco di fotografare sempre con lo spirito e l’entusiasmo del fotoamatore, ma di quel mondo non mi piacevano due cose: la prima, quell’atteggiamento da mammoni che si rifugiano sotto le gonne dell’arte…”.

La seconda?

“Il culto dello strumento. Un giorno, in una di quelle gite da fotografi, cominciò a piovere, la scena era bellissima ma tutti corsero a mettere al riparo le loro macchine. Per fargli rabbia, misi per terra il mio costosissimo obiettivo Telyt 200/4 e ci pisciai sopra”.

Proprio lei? Che ha dedicato un libro alla sua Leica?

“E alle altre… Sono un marito fedele con qualche tradimento. Non bisogna farsi un mito della macchina, se devo fotografare la Madonnina sul Duomo prendo la Nikon col tele. Ma la maggioranza del mio lavoro sì, l’ho fatto con la Leica e il 35 millimetri”.

E in bianco e nero.

“Ho fotografato anche a colori, soprattutto per i libri del Touring Club. Ma quando sto per scattare continuo a dirmi: se questa foto viene meglio a colori, non la faccio. Perché vorrebbe dire che mi ha colpito solo il colore, che sto fotografando un colore e non il soggetto”.

1E in pellicola.

“Non ho nulla contro il digitale. Ha alcuni vantaggi. Ma produce immagini troppo precise, e f venire la tentazione di manipolarle. Da vent’anni mi bombardano di critiche per questa scelta, alla fine ho deciso semplicemente di rispondere: sono un adoratore di Santa Negativa, lasciatemi la mia fede”.

Però, quel timbro polemico dietro tutte le sue foto, “Vera fotografia, non corretta, modificata o inventata al computer”…

“Così tutti capiscono che fotografo sono, che lingua parlo. Il mondo non lo decidi tu com’è. Le mie foto più riuscite sono merito del soggetto. Dopo lo scatto, non c’è più molto da fare, qualche correzione di luce e contrasto, ma basta. C’è un mito, che le foto migliori siano quelle che ti costano più fatica ed elaborazione, ma spesso è vero il contrario, le foto vengono, un fotografo deve accettarle”.

Ma il mondo non si offre da solo, va scoperto…

“I miei lavori miei sono tutti sociali. Era sociale e polemico il lavoro sulle Grandi Navi a Venezia, ma sono sociali anche i miei paesaggi. Per fotografia sociale la gente intende i morti di fame, ma io faccio fotografia sociale anche quando fotografo i principi Torlonia col cameriere. In questi giorni sto facendo un libro…”

Un altro?

“Il duecentosessantunesimo. Su San Fruttuoso, qui vicino, è un posto meraviglioso con una antica abbazia, ma io entro anche nelle case e fotografo chi ci vive”.

Perché per due volte rifiutò di entrare in Magnum? Bastian contrario?

“Me lo propose Koudelka, poi Erwitt. Ma io non so l’inglese, poi non avevo capito bene le regole e mi spaventava l’idea di essere tenuto a fare cose che non volevo fare… Temevo che fosse faticoso essere sempre all’altezza degli altri, non poter avere momenti di debolezza e magari fare cose meno impegnative”.

Un solitario?
“Ho sempre lavorato senza assistenti, senza apparati, in casa mia. Ho dovuto rinunciare a certi incarichi, ho guadagnato meno, ma ho anche speso meno e mi sono sentito libero”.

C’è ancora posto in questa epoca per il suo modo di fare fotografia?

“Forse no, ma poi vedo che alle mostre dei grandi fotografi del reportage del Novecento c’è la fila fuori, qualcosa vorrà dire”.

Un grande fotografo suo amico e maestro, Mario Dondero, disse che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che ha voluto bene alla gente. Lei come vorrebbe essere ricordato?

“Come un uomo onesto in tutto, anche nelle fotografie”.

[Una versione di questa intervista è apparsa su La Repubblica l' settembre 2020]

Tre Oci, addio o arrivederci?

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_MG_0263Chiudere un occhio ogni tanto è lecito. Chiuderne tre è un problema.

Per fortuna, col passare di giorni le notizie che arrivano da Venezia sono meno drammatiche di quel che sembravano.

La Casa dei Tre Oci, che in quasi dieci anni di esistenza è diventata un luogo imprescindibile per la cultura della fotografia in Italia, non morirà. Almeno, queste sono le rassicurazioni, ancora ufficiose.

Si tratterebbe di sfratto con trasloco, e non di chiusura. Dopo un’ultima grande mostra, in primavera, le attività dei Tre Oci dovrebbero riprendere, forse già entro il 2021, in una nuova sede, sempre a Venezia. Qualcosa andrà comunque perduto, forse molto, dirò poi.

Ma il progetto culturale sembra salvo. Speriamo. Perdere anche i Tre Oci sarebbe molto grave, in quest’anno pandemico che ha colpito al cuore il settore (interrotta due volte, ai Tre Oci, la splendida mostra su Jacques-Henri Lartigue), dove già diverse istituzioni dedicate alla fotografia sembrano avere un futuro incerto.

Merita comunque soffermarci un po’ su questa vicenda, perché credo riveli tutta la fragilità degli investimenti sulla cultura visuale in questo paese, e apre diversi interrogativi sul ruolo delle fondazioni bancarie, che da un ventennio almeno ne costituiscono pressoché l’unica fonte di sostentamento.

La Casa dei Tre Oci, intesa come edificio, appartiene infatti alla Fondazione di Venezia. Mentre le sue attività sono sostenute da Civita Tre Venezie, un consorzio di imprenditori nato per supportare la cultura.

Ora, è successo che la Fondazione ha deciso di vendere l’edificio. La motivazione ufficiale, alla base di un “piano strategico” appena approvato (tutti i grandi tagli e le retromarce si propongono come piani di sviluppo), è che, a differenza di altre consorelle, la Fondazione Venezia si era sovraccaricata di investimenti immobiliari che appesantivano un bilancio che dovrebbe essere dedicato, per mission, alla elargizione di fondi per interventi meritevoli nei campi della cultura e del sociale.

3oci1Meno esibita, ma più reale, è la crisi di uno di questi investimenti: il poderoso intervento di ristrutturazione del comparto M9 di Mestre, al cui centro sorge il museo che porta quel nome ed è un esperimento  innovativo di didattica della storia (quella del Novecento) attraverso percorsi interattivi e ampio uso di nuove tecnologie.

Per cause che non è il momento di approfondire, il M9 non ha dato i risultati sperati in termini di pubblico: 50 mila i visitatori annui anziché quelli attesi (sei volte tanto). Ma si sa che i musei hanno un avvio lento.

La vera crisi però più che di consumi culturali è nei profitti immobiliari: attorno al museo, infatti, sorge un distretto che era destinato ad attività commerciali, ristoranti, uffici: che però non ha fruttato il ritorno economico atteso.

Da qui: vendite di immobili (tra cui i Tre Oci, acquisito nel 2000) e un piano di ristrutturazione finanziaria severo, incluso un rinnovo della gestione culturale (al promesso rilancio di M9 lavorerà il nuovo direttore, Luca Molinari).

Volendo essere cattivi, si potrebbe dire che le difficoltà di un centro commerciale hanno colpito un museo che se ne è mangiato un altro.

Nei giorni scorsi la discussione pubblica sulla vendita dei Tre Oci (non si sa ancora a chi, voci raccolte dai giornali cittadini parlano di un fondo di investimenti americano) è salita di tono, nei palazzi della politica e anche fuori.

Uno striscione di protesta è stato appeso all’ingresso del museo di fondamenta Zitelle da comitati di cittadini della Giudecca, l’orgogliosa ma appartata isola che in questo modo perderà un centro propulsore di vita e di visite. Une petizione online ha raccolto per ora 1500 firme.

Al di là delle polemiche politiche, il timore è che Venezia stessa perda un gioiello della sua collana, un luogo per la fotografia affermato e popolare, magari per vederlo scivolare in terraferma, nell’enorme spazio all’ultimo piano dell’M9 che peraltro ha già ospitato mostre di fotografia.

E che l’edificio trioculare finisse trasformato nell’ennesimo hotel di una condizione urbana sempre più monotematicamente dominata dal turismo.

Pare che non succederà. La vendita dell’edificio (su cui non pendono vincoli storico-artistici) dovrebbe essere condizionata a finalità d’uso culturali o sociali.

E l’esperienza del museo non si disperderà: “I Tre Oci sono un progetto culturale di grande livello, e non si può buttare”, lo promette Emanuela Bassetti, che è al vertice di Civita, confermando l’impegno dell’associazione a continuare su quella strada, benché in un altro luogo, ma sempre “sull’acqua” e non in terraferma.

Ricerche e sopralluoghi sono in corso, potrebbero già esserci ipotesi su una nuova sede in città, che sia assieme adeguata per spazi e prestigiosa.

3oci2Ci sarà comunque tempo per un addio in grande stile alla storica sede. Denis Curti, direttore artistico dei Tre Oci, sta lavorando per aprire ai primi di marzo la già prevista retrospettiva dedicata a Mario De Biasi, uno dei nostri più grandi fotogiornalisti, inviato di Epoca, l’”italiano pazzo” che sfidò le pallottole per documentare i giorni atroci della rivolta ungherese del ’56.

Quel che si perderà (oltre a un brand e a un nome consolidati e conosciuti - ma non è ancora detto…)  è sicuramente un legame felice, e perfino affascinante, fra contenitore e contenuto.

Quell’edificio bizzarro alla Giudecca, con quei suoi tre grandi finestroni neogotico-eclettici (i “tre occhi”, appunto) aperti su una veduta da urlo, il profilo di Venezia dalle Zattere al palazzo Ducale, era un inno alla visione, al piacere dello sguardo, alla quiete dell’osservazione.

Come casa di artisti oltretutto era nato, nel 1913, per volontà di un originale intellettuale e pittore, Mario De Maria, alias Marius Pictor, amico di D’Annunzio, che ne aveva fatto il laboratorio e il cenacolo di una comunità di creatori, alcuni dei quali illustri. Nel 1970, Enrico Maria Salerno vi aveva girato alcune scene del suo film Anonimo veneziano.

Coi suoi tre piani luminosi, la Casa dei Tre Oci si è prestata benissimo ad ospitare mostre impegnative, dedicate a grandi autori del passato e viventi (da Elliott Erwitt a Sebastião Salgado, da Gianni Berengo Gardin a Ferdinando Scianna, da Helmut Newton a David LaChapelle, da Werner Bischof a Willy Ronis, da Fulvio Roiter a Letizia Battaglia) capaci di mantenere un equilibrio fra la qualità scientifica e culturale e l’appeal verso il grande pubblico.

Inoltre, il centro ospita stabilmente almeno due patrimoni culturali preziosi: la biblioteca specializzata donata da Italo Zannier, pioniere degli studi di storia della fotografia in Italia; e l’archivio della Gondola, il blasonato ultradecennale circolo fotografico che ha dato grandi autori alla fotografia italiana. Ci sarà spazio anche per loro nella nuova destinazione?

C’è da augurarsi ora che le promesse siano mantenute, e che la nuova sede sia cercata con occhi attenti. In questi casi ne servono almeno tre.


Di ritratti, fotografi e cani invadenti

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Un cane, in un ritratto, c’è sempre. Dice Ferdinando Scianna. Anche quando non si vede.

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Ferdinando Scianna: Veronica nella processione del Venerdì santo, Petralia, Sicilia, 1964. © Ferdinando Scianna

Non sta parlando di William Wegman, che a ritrarre i cani ha dedicato tutta la sua carriera, né di Elliott Erwitt, che ha fatto mostra, qualche volta, di fare ritratti ai cani per farci capire come sono i padroni.

Non sta facendo ironia sulle facce di certe celebrità dello spettacolo o della politica.

Questa metafora azzeccata - e dirò perché - di Scianna, da sola basterebbe a consigliarci di leggere questo suo ultimo Il viaggio di Veronica, un libro da saggista e storico della fotografia (pochissime foto sue, ci troverete), ma che avrebbe potuto scrivere solo un grande fotografo, anche di questo dirò poi perché.

Per cominciare, occorre sapere che Richard Avedon, uno dei numi olimpici del ritratto fotografico, un giorno, andò a sfogliare gli album di fotografie della sua famiglia.

Notò che “posavamo davanti a macchine costose, a case che non si appartenevano, prendevamo in prestito cani”.

Tutti gli album di famiglia, è stato detto, sono una forma di propaganda privata. Ma quello gestito da Jacob Israel Avedon, il padre di Richard, severo commerciante di abbigliamento sulla Quinta Strada, doveva essere davvero un po’ particolare. “Tutte le nostre foto di famiglia erano costruiti in qualche modo come un enorme bugia su ciò che eravamo. Ma rivelavano la verità su ciò che avremmo voluto essere”.

Ecco, è il punto. Questa idea, che la fotografia è uno spazio promozionale, che serve sempre a pro-durre qualcosa da pro-porre, mettendoci dentro qualche personalissima pro-posizione, non vale solo per il ritratto. Vale per tutta quanta la fotografia, dagli inizi ad oggi.

Semplicemente, nel ritratto si vede meglio. Per questo Scianna sostiene, e io abbraccio volentierissimo la sua tesi, che “il ritratto praticamente coincide con la storia stessa della fotografia” perché “comincia dopo la catastrofe raccontata nel mito di Narciso”.

Comincia quando l’uomo capisce a sue spese (affogandoci dentro) che la propria immagine riflessa non è la realtà. “Il ritratto può insomma cominciare a esistere solo dopo aver preso atto che oltre alla realtà esiste anche l'immagine della realtà”.

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Ferdinando Scianna nel titratto di un fotografo di studio, in Yemen

Vi sembra scontato, ovvio? Sappiate che non lo è stato per quasi due secoli e fa fatica ad esserlo anche oggi. Perché quando guardiamo una fotografia, la forza gravitazionale di “qual che ci si vede” è più potente del gorgo di un buco nero.

L’orizzonte degli eventi, quando guardiamo una fotografia, rompe la cornice e la superficie della carta (ora, del display) e ci tira dentro, così diciamo “questo è XY” e mai “questa è la fotografia di XY” e non è per risparmiare parole.

Così il ritratto è diventato addirittura lo specchio dell’anima di chi vi lascia invece solo un’impronta. Credere questo significa passare la soglia del trascendente. Come la Veronica del titolo.

Santa Veronica, sì, la prima fotoritrattista della storia. Che con un panno di lino asciugò il viso di Cristo sulla via dolorosa del Calvario ricavandone un provino a contatto. Che poi si mise a fare miracoli.

Ora, Scianna sapeva che un amico caro, intellettuale francese, Gerard Macé, raccomanda di evitare la parabola della Veronica a chi scrive di fotografia. Ma l’abbiamo fatto tutti (mea culpa, o forse niente culpa).

Scianna ci ha pensato un po’ e poi ha deciso: “tanto peggio per il kitsch e lo scontatissimo luogo comune. Quest'idea di Veronica prima fotografa ritrattista è perfetta, funziona, mi serve, mi piace troppo. La tengo”.

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Nadar: Charles Baudelaire, ca 1860

E ha centomila ragioni, perché tutto viene da lì, dall’idea che qualcosa di mistico accada quando un fotografo decide di fare il ritratto a qualcuno.

Qualcosa che travolge la forma, l’espressione, la costruzione dell’immagine, diventa una specie di unione mistica e spirituale fra due persone.

No, no, no. Non è quello che succede. Non è quello che è successo nella storia.

Un fotografo lo sa. Quando guarda i ritratti dei colleghi, vede la fotografia. Vede il medium e non solo il contenuto.

Di Felice Beato, per dire, Scianna vede che “non fotografava il presente che scopriva, ma ciò che ancora rimaneva di un passato di cui intuiva il malinconico dissolversi”.

Di Curtis non vede solo ritratti di indiani, ma il suo “gesto morale e politico” di denuncia di un lungo nascosto etnocidio.

Considera Nadar “un gigante”, ovviamente si inchina al suo maestro Henri Cartier-Bresson, nutre qualche sospetto verso Lewis Carroll, non ha remore a dire che i set roboanti di Annie Leibovitz gli sembrano “azzeccatissime trovate.

Non ama Irving Penn, assolve un po’ a sorpresa Diane Arbus e Helmut Newton che gli sono del tutto distanti; salva anche August Sander ma solo perché “fa il contrario di quello che dice di voler fare”, cioè ritrae individui e non tipi universali.

Ma di tutti sa una cosa: che “la verità di un grande ritratto, di una grande fotografia, è innanzitutto la sua verità estetica”, cioè la costruzione di uno sguardo.

E la costruzione, per funzionare, deve essere sempre sapiente. Ed eccoci allora tornati alla battuta iniziale: il cane. In un buon ritratto “c'è sempre qualcuno che si fa prestare un cane”, come faceva la famiglia Avedon. Se non è il fotografato, è il fotografo.

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Eugène Disdéri: Il dica di Coimbra, carte de visite, 1855 ca.

Il cane, metafora della connotazione.

Detto da un fotografo che ha fotografato molti animali, che sembra convinto che non si possa fare un ritratto a un animale, ma che proprio di un cane (che si morde la coda su un ghat di Varanasi) ha fatto uno dei più grandi e commoventi suoi ritratti.

E poi, per finire. C’è un terzo attore in questa storia

Se il ritratto fotografico è un dialogo, per quanto asimmetrico, tra un fotografo e la sua vittima consenziente (è l’aforisma di Cartier-Bresson), quando il ritratto è fatto, un altro dialogo si apre. Tra la fotografia e il suo spettatore.

“Guardare un ritratto fotografico significa ricominciare il dialogo, riproporre la domanda, ma questa volta non alla persona fisica, bensì all'immagine che la persona ha dato al fotografo. Questo secondo dialogo non è possibile convincente se l'incontro tra il fotografo il soggetto non ha funzionato”.

Col terzo attore, ossia noi che aspettiamo pazienti il frutto dell’incontro fra il fotografo e il fotografato, si compie il triangolo magico del ritratto.

E anche il nostro sguardo non è innocente, non è naturale. Anche noi, gli spettatori, portiamo sempre con noi, al guinzaglio, il  cane della nostra cultura visuale.

A tratti scodinzola, spesso abbaia, qualche volta morde, ogni tanto dorme, ma con un occhio solo.

La street photography uccisa dal fotospazio

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Sull’esistenza della street photography i fotografi di opposte obbedienze baruffano più che teologi contro atei sull’esistenza di Dio.

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Michele Smargiassi: Venezia, Biennale 2019. Licenza CC by-nc-sa

È un genere, no è solo un’etichetta, un’invenzione furbesca, no è una tendenza artistica, no è uno stile, no è solo una tecnica, anzi una scuola…

Non conosco abbastanza la sociologia dell’arte per dire se polemiche simili siano scoppiate anche attorno alla pittura open air di fine Ottocento, forse sì.

Per evitare di ripetere sempre le stesse cose, consiglierei alle prossime discussioni di partire almeno da una buona ricapitolazione dell’argomento, a firma del ricercatore e docente Lorenzo Marmo, che ho trovato sul numero 9 di Rsf, la eccellente rivista di studi di cultura fotografica della Sisf. Ne riassumo alcuni punti, l’intero articolo è liberamente accessibile qui.

L’unica indicazione che l’etichetta ci offre è un nome di luogo: la strada. Parliamo quindi di fotografie di ambiente urbano, o almeno fortemente antropizzato; ed escludiamo le fotografie di interni.

Poco? Sì. La rivendicazione di “foto di strada” sembra alludere anche alla distinzione tra studio e strada, cioè tra fotografia messa in posa, costruita, e fotografia raccolta dal flusso spontaneo della vita comune. I canonizzatori del genere, Joel Meyerowitz e Colin Westerbeck, nel loro imprescindibile volume Bystander, aggiungono infatti questo requisito: devono essere fotografie candid, prese di sorpresa.

E qui già siamo nei guai, perché molti street photographer hanno utilizzato “in strada” tecniche e stili della fotografia posata o staged (da Eugène Atget a Cindy Sherman a Elliott Erwitt…) o comunque con interazioni evidenti tra fotografo e soggetto.

La faccio breve: più che caratterizzata da un luogo o da uno stile, secondo l’autore la SP sembra essere una “costellazione di atteggiamenti” accomunati dalla volontà di “inquadrare una porzione di mondo in modo da suggerirne ed evocarne le tensioni invisibili”.

Lontana dall’essere reportage sociale, o denuncia dei malesseri urbani, la SP sarebbe insomma una sorta di rappresentazione intuitiva delle relazioni impalpabili fra lo spazio e i suoi abitatori mutevoli e temporanei.

Sarebbe insomma, la SP, uno strumento di analisi della condizione urbana come campo di forze.

È una interpretazione suggestiva, che però apre altri interrogativi. Per uno di quei casi non casuali, ma segno di intelligenza editoriale, sullo stesso numero di Rsf ecco un altro articolo molto stimolante, e decisamente originale, che interseca questo.

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Da RSF, n. 9, 2020

È un altro docente di cultura visuale, Adriano D’Aloia, a farsi domande sulla “fotografia in strada” oggi più praticata, diciamo pure pervasiva e invadente, quella dei ritratti fatti en plein air col fotofonino.

Che sembrerebbero essere semplicemente la prosecuzione, con nuovi mezzi, delle tradizionali foto turistiche in posa davanti ai monumenti, e invece sono l’esplosione disfunzionale e autoreferenziale di quel cliché: non più attestati di presenza in un luogo, certificati di avvenuto consumo ludico di un’esperienza di viaggio, bensì autoconferme di esistenza e relazione, destinate all’esposizione in quell’anagrafe della visibilità che è lo spazio sociale del Web.

La cosa interessante, finalmente qui scoperta e analizzata, di questa nuova pratica della fotografia in luogo pubblico, è precisamente l’impatto che quel gesto fotografico produce sullo spazio, nonché sulle relazioni sociali che vi si intrecciano.

Nel momento in cui il fotografante designato solleva a braccio teso la mattonella del fotocellulare e inquadra il singolo o il gruppo da fotografare, ecco che si viene a creare uno speciale spazio di relazione (l’autore lo battezza fotospazio), invisibile eppure riconoscibilissimo, che deforma lo spazio comune, quello a disposizione di tutti.

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Da RSF, n. 9, 2020

I passanti non coinvolti ne percepiscono l’esistenza e si adeguano a quella specie di bolla invisibile, ma percepibile, fermandosi per non impallare la visuale, o aggirando il fotospazio (in una serie di varianti comportamentali che il saggio descrive con godibilissima precisione).

Insomma, la fotografia in strada influenza i comportamenti degli attori sociali, di fatto creando una vera e propria “struttura urbana” a diversa densità,  che per essere invisibile ed effimera non è meno reale (può essere attraversata distrattamente e con scuse, oppure sfidata con fastidio, ma mai ignorata).

Non è un fenomeno inedito né solo fotogenerato: qualsiasi atto privato in luogo pubblico produce “bolle” spaziali analoghe (non si passa in mezzo a due persone che chiacchierano, né fra il cliente del bar e il bancone…).

Singolare è che questa deformazione relazionale dello spazio funzioni, e venga rispettata, anche quando viene creata da un atto (l’auto-fotografia compulsiva) che nella considerazione comune odierna viene spesso giudicato negativamente, come qualcosa di futile, vanesio, infantile, fastidioso, mentre qui invece diventa “un dispositivo fortemente disciplinare in grado di modificare i percorsi e le attività urbane”.

Anche solo per pochi istanti, i passanti accettano di fermarsi, perdere tempo, cambiare traiettoria, insomma di “disturbarsi” per rispettare il fotospazio altrui.

Una galanteria abbastanza inattesa in una scena sociale sempre più afflitta dal nervosismo e dall’ostilità delle relazioni fra sconosciuti.

C’è da chiedersi se sotto la superficie di un fastidio “culturale” per le nuove gestualità fotografiche non si nasconda in realtà il riconoscimento profondo del fatto che la fotografia fa parte della nostra esistenza, antropologica quasi più che sociale, come un carattere che, buono o detestabile che sia, ormai non si può più eliminare, e bisogna farci i conti, sopportandolo, adeguandoci più o meno di buon grado.

Mi chiedo allora se tutto questo in qualche modo non cambi le condizioni, quindi il concetto stesso e dunque la pratica, della street photography.

Che nella definizione di cui ho detto prima sembrerebbe essere la messa in pratica sperimentale, in forma visuale, delle teorie di Ervin Goffmann sulla recita sociale. Ma che in realtà ha preteso di essere molto di più, e qualcosa di diverso.

La SP non è semplicemente uno strumento di analisi prossemica. La SP pretende di cogliere nel flusso della vita di strada qualcosa di specifico e di irripetibile (ovvero, un unicum che è il contrario dell’analisi scientifica): l’attimo in cui la relazione fra corpi e sfondi si carica non della pregnanza di senso cartier-bressoniana, ma al contrario di una stuporosa insensatezza. Quello che Meyerowitz ha più volte definito con felice afasia il “ghosh moment”. Qualcosa che sfugge al controllo di tutti i coinvolti, fotografo compreso.

Bene, ora che lo spazio pubblico è costantemente saturato da fotospazi invadenti e ubiqui, lo street photographer può davvero pensare ancora di rimanere osservatore inosservato di una rete di relazioni umane colte con la guardia abbassata?

La scena pubblica ha metabolizzato il gesto fotografico, al punto di riconoscergli perfino il potere di deformare lo spazio delle relazioni, e lo street photographer ora entra nel gioco: la sua presenza oggi difficilmente passa inavvertita, anzi ormai è attesa e messa in conto.

Il fotografo evoluto, proprio come il fotografante smartfonico, crea un suo fotospazio che il passante è ormai allenato a riconoscere, e se lo riconosce ha il tempo e il diritto di decidere se entrarvi o meno, e come farlo.

E questo trascina anche il fotografo professionale nella bolla relazionale che preferirebbe evitare, sulla base del dogma dell'invisibilità come garanzia di verità.

Con una differenza che i fotografi professionisti conoscono bene: quando in strada spunta una fotocamera dall'aspetto "serio", magari una reflex nera armata di ottiche prominenti, è abbastanza facile che susciti reazioni irritate, di evitamento, di dissenso anche aggressivo ("niente foto, c'e la praaaaaaivasiii!").

Reazioni avverse che si riducono quasi a zero se a comparire è un fotocellulare. I fotospazi insomma non sono tutti uguali, alcuni vengono percepiti come blandamente fastidiosi, altri come prepotentemente ostili.

In conclusione. Mi è già capitato di dirlo: a Fotopoli, dove tutti siamo fotografanti e fotografati senza ormai alcuna possibilità di distinguere, non esistono più, se mai sono esistite, fotografie “spontanee”, anche la regina del candid shot adesso è una fotografia di relazione, e ogni relazione è recita, palco, teatro.





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